IL GIARDINO DELL'ESSENZA: La cittadella

LA CITTADELLA

La Cittadella è quel "veicolo" essenziale che ci dà la forza e stabilità per perseguire la realizzazione della nostra missione nella vita, senza dispersioni e interferenze.
Potremmo paragonarlo al cammello che ci permette di attraversare i deserti interiori, superando ostacoli, difficoltà e l'inganno dei miraggi dell'ego.

Su di me in relazione all’essenza:

Quando sono venuto in contatto con Faisal e il suo lavoro sull'Essenza, era il 1997, ero in un duplice percorso di consapevolezza.

Da una parte, avendo incontrato Osho nel 1980, da allora praticavo tecniche di meditazione, in una costante e assillante ricerca di ritrovare dentro di me il “testimone”, o “sakshin”, quella parte in ciascuno di noi che può osservare il proprio corpo-mente perché non si identifica con esso. La chiarezza che la chiave di comprensione del mondo, un’idea-desiderio che mi tormentava fin da bambino, non stava nell’osservazione esterna ma dentro di me e quindi che “conoscere se stessi”, come diceva Socrate, è la meta più elevata a cui un essere umano possa aspirare è uno dei doni più preziosi che ho ricevuto da Osho, insieme con l’apertura a ogni strada, la flessibilità, l’eclettismo, il coraggio di continuare ad esplorare senza fermarsi.

Dall’altra, proprio per un “permesso” e uno stimolo che proprio Osho aveva dato ai suoi amici e discepoli, avevo conosciuto e praticato numerosi sentieri di introspezione, varie scuole di Psicologia del profondo che andavano dalla PNL e ipnosi Ericksoniana, al counselling e tecniche di respirazione, dall’uso del koan zen alle costellazioni sistemiche.

Ognuna delle esperienze fatte mi aveva in qualche modo arricchito e aperto nuovi orizzonti, nuovi modi di pensare, sentire e agire.

Mi mancava comunque un ponte che rompesse una barriera tra i due percorsi. Osho me lo aveva indicato ma esistevano comunque ancora zone oscure, soprattutto nei miei compagni di avventura. Taluni sottilmente rinnegavano la validità di un lavoro paziente sul proprio mondo inconscio, affidando tutto a un “divino”, alternativamente vissuto come fuori o dentro di noi. Altri continuavano a guardare con sospetto o diffidenza tutto ciò che non rientrasse in canoni riconducibili alla struttura corpo-mente, che non fosse “tangibile” e riconducibile ai grandi padri fondatori del lavoro sull’inconscio : Freud, Jung e i loro successori.

Per sfuggire a questo, senza rischiare il pericolo contrario, cioè riconoscere solo Budhha, Gesù e tutti gli altri mistici, deridendo o sottovalutando i padri della Psicanalisi, il mio sforzo era molto elevato, affaticato dalla necessità di mantenere “una giusta distanza” o equilibrio, a scapito della libertà di avventurarmi più in profondità in una o l’altra sponda.

Quando un’amica mi propose di conoscere Faisal fui all’inizio molto titubante. Non volevo un’altra scuola, un altro strumento magari prezioso, da incasellare poi a fatica nel mio bagaglio, già più che sufficientemente vasto e, in qualche misura caotico. Stavo per rifiutarmi. Poi sentii la spinta ad andare e mi ci volle del tempo per riconoscere la validità della mia scelta.

All’inizio rimasi affascinato ma quasi impermeabile a una nuova mappa che faticavo a comprendere appieno, che mi sembrava complessa e tanto vasta. In realtà la fatica derivava dalla necessità di lasciare andare tante vecchie o nuove convinzioni, alle quali mi ero troppo affezionato. Per imparare qualcosa di nuovo bisogna prima disimparare, lasciare andare qualcosa di vecchio, come nella nota storia zen della tazza di te. Lasciare andare convinzioni non più utili ha voluto dire anche lasciare andare pezzi del passato, con conseguente dolore e tristezza, come quando vediamo aspetti che non ci piacciono di noi stessi o di persone a noi care che prima nascondevamo ai nostri stessi occhi per non soffrire.

Si sa, spesso cambiare è più difficile che continuare a soffrire in un modo che ci da una falsa sicurezza.

Man mano che negli anni successivi continuavo ad esplorare il mondo dell’essenza, sia direttamente applicandolo alla mia vita, sia attraverso l’insegnamento, ho capito sempre di più l’enorme beneficio che può derivare.

L’obiettivo ambizioso, che è da sempre un’aspirazione così profonda a cui posso solo cercare – inutilmente – di sottrarmi quando è troppo intensa, è quello che, anche se potrebbe sembrare banale, non lo è affatto, di arrivare alla fioritura come essere umano. Sì è la maturazione della parte umana, non tanto quella divina che mi interessa sopra ogni cosa, perché in quell’Umanità è contenuto indissolubilmente il Divino.

E non credo esista un punto di arrivo, non certo l’illusione di una”illuminazione” come fine della sofferenza, come trascendimento dell’aspetto umano né tanto meno come la sua negazione. Caso mai esistono delle tappe. Una di queste, e non penso proprio sia nemmeno troppo diversa dalle altre, né di sicuro definitiva, è la morte. Cosa ci si può auspicare rispetto al pensiero, all’attesa o all’incontro consapevole con la propria morte, se non che possa accadere la magia di scoprire che c’è un senso di serenità, derivato dal sentirsi in pace con quello che si è vissuto, senza grossi rimpianti o rimorsi?

Una tazza di té:
una storia zen

Nan-in, un maestro zen dell’era Meiji (1868-1912) ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo zen.

Nan-in servì il té. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il té, poi non riuscì più a contenersi. “E’ ricolma. Non ce n’entra più!” “Come questa tazza,” disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo zen, se prima non vuoti la tua tazza?”

Da 101 storie Zen, a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Adelphi.

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